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Dal libro SONNO GIAPPONESE

  Gabriele Galloni



SONNO GIAPPONESE Gabriele Galloni




Dal libro SONNO GIAPPONESE 




Blanche aveva quattro anni quando il vaso la schiacciò.
Avere quattro anni nel sud della Francia è diverso dall’avere quattro anni nel resto del mondo.
Lì ti esponi sul serio al pericolo. Nel sud della Francia, cioè.
E il pericolo, per Blanche, si concretizzò in un vaso di terracotta alto un metro e largo il triplo di lei. Mentre tentava di scalarlo, il vaso si rovesciò.
Immaginate un giardino nizzardo rigogliosissimo. Edera. Colonne doriche; bianchissime fontane al cui interno pesci ancora sconosciuti alle masse dialogano pinna a pinna. E soprattutto vasi – è un giardino pieno di vasi.
Bene, eccovi.
Adesso immaginatevi Blanche.
Riccioli castani; occhi enormi. Una grande parlantina, Blanche.

Il nonno fiero ipotizza per lei un futuro da principe del foro.
Blanche che corre via dalla famiglia radunata all’ombra di una palma; che corre a esplorare il giardino. Il suo mondo, almeno per l’estate prima dell’asilo.
Ora siete in grado di immaginare l’urlo che caccia la mamma di Blanche quando vede sua figlia sotto il vaso. La gambina destra che scalcia convulsa – quella sinistra immobile. Blanche ha un prolasso
La mamma grida. Accorre il marito; accorrono il nonno e la nonna di Blanche, famosi in Europa per aver scoperto come tostare il caffè. La vita se ne va da Blanche fuggendo dalle orecchie. Sangue così rosso nessuno l’ha mai visto.
Perché in quel sangue c’è l’anima di Blanche.
E l’anima dei bambini – ma di questo che ne possono sapere tutti loro? – ha più colore delle anime adulte.
Porta con sé, l’anima dei bambini, una luce ansiosa di
morire.




°

Ti scrivo per dirti di non scrivermi più. Sappilo: se continuerai a scrivermi, racconterò tutto a mia madre.
Delle cose che mi facevi sul camper e di quando mi chiedesti di scopare un cane. Tanto che ci siamo dichiarati amore già lo sa. Ma immagina il putiferio se scoprisse altro. I ragazzi tuoi simili non hanno pace neanche in galera. Immagina, dico. E presto o tardi verresti catturato.
Questa estate ho imparato a scrivere. E adesso articolo le frasi molto meglio di te. Papà dice che nonostante i miei undici anni nessuno potrebbe fregarmi, tanto sono bravo con la grammatica e la costruzione sintattica.
Tu mi hai fregato, sì, ma non ci riuscirai più. Con le tue belle parole ci lavo il Messico intero. So che sei lì, adesso.
L’ho capito dal tuo profilo Facebook. Ancora lo guardo, ogni tanto, per scoprire se pensi a me. Sono felice di vedere che a me non pensi più. Non avrebbe senso e quel che è stato è stato.
Sarò sincero: ti ho amato. Come può amare un bambino, e quindi senza capire bene cosa sia quel nodo allo stomaco; ignorando l’ampiezza del desiderio e la verità del
suo compimento.
No, non sto parlando aramaico. Adesso è il mio cuore che ti parla; e se il mio cuore ha una lingua letterata non posso farci nulla. Sta a te alfabetizzarti e comprenderlo – sia pure per l’ultima volta.
Perché tu, ne sono sicuro, hai amato me.
L’amore non è facile; meno che mai nel nostro caso. Io bambino e tu un amico di famiglia.
Non ci si può assentare in due; si deve simulare il Caso.
Fingerlo, nelle occasioni comuni, manipolarlo per trarne il maggiore vantaggio possibile.
Tipo lo scorso capodanno. Quando nei dieci minuti dopo la mezzanotte non c’era nessuno a badare a noi; e allora di corsa al bagno, di corsa i pantaloni calati; di corsa
venire e ritornare.
Fingere di guardare i volumi della tua biblioteca; ché il corridoio è sempre in penombra e una mano lì nemmeno si vede.
Non potevamo continuare in questo modo.
Poi la tua richiesta di accoppiarmi con quel dobermann.
“Fallo per Claudio. Un regalo per il suo compleanno.”
Ecco: ne rimasi disgustato. All’epoca non te lo dissi.
Adesso dirtelo non fa male. Perciò te lo dico.
Ecco, te l’ho detto.
Lì si incrinò qualcosa. Non è tutta colpa tua; penso che le cose dovessero andare così e basta. Non facciamoci il latte amaro. Sangue, scusa.
Concludo ripetendoti la richiesta fatta a inizio lettera.
Non scrivermi più. Quindi non rispondermi neanche. Leggila, questa lettera, rileggila quante volte vuoi. Conservala dentro di te, perché in queste parole c’è l’ombra di tutto l’amore del mondo.
Ombra, fantasma, possiamo chiamare ciò che resta in mille modi.
Sarebbe potuto andare diversamente? Non lo so. Io non me lo chiedo; e il consiglio è di non chiedertelo nemmeno tu.




Addio, buon Messico.


Roma, via del Trullo, agosto 1989












°




La sua prosa era barocca; il suo gatto sonnambulo.
Eppure, strano a credersi, viveva bene. Così bene che per gli amici era fonte inesausta di letizia e buone nuove.
E la sua casa – a due passi dal mare – era sempre piena di ospiti.
Ottanta posti letto in sessanta metri quadri. Un prodigio dell’arredamento.
Il divertimento più grande che l’uomo offriva ai suoi ospiti era senza dubbio il sonno. Ne conosceva così tante varianti che in quella casa non ci si stancava mai di dormire.
C’era il sonno africano, inventato dai primi uomini e quindi il più antico. Il sonno giapponese, snob e affettato; il sonno tedesco che era freddo ma ti lasciava bei ricordi.
Il sonno mediterraneo, lirico e dolce come il pendio di un promontorio; il sonno americano, un’autostrada così lunga che le zampe del letto finivano puntualmente per consumarsi.
Nelle città di mare si dorme bene; è risaputo.
A volte il mare arrivava fin dentro la casa e svegliava i dormienti – i quali, per ovviare al brusco risveglio, assecondavano l’acqua tuffandocisi dentro.
Tra i mobili e i flutti addormentandosi ancora.











°




Diede disposizioni affinché il corpo, una volta passata l’anima a luce migliore, venisse consegnato a una tribù abissina; una a caso.


“In Abissinia onorano i morti come si deve.”
“E cioè?”
“Li mangiano.”


Fin da bambino il suo sogno era quello di essere mangiato.
“Essere mangiato dai negri,” come aveva scritto in un tema di terza elementare. La maestra lo aveva guardato; poi aveva guardato la foto del Duce sopra la cattedra; quindi lui, di nuovo. E i suoi compagni ammutoliti.
Passarono la guerra, il dopoguerra e il boom. Trascorse la vita come un film a basso volume.


Il testamento venne considerato inusuale dai figli; orribile dalla consorte. Prevedibile dagli amici di una vita.
Tentarono di farlo ragionare.
“Se il tuo corpo verrà mangiato e digerito dai selvaggi,
in che forma tornerai alla vita nel giorno della Resurrezione?”
“Ti assicuro che lo stomaco di un coso, un colorato là,
non è affatto confortevole; conosco diversi amici che…”


Ma lui niente.


“Sono vecchio e malato,” rispondeva a chiunque volesse persuaderlo. “Non mi resta che questo desiderio; impossibile farmi cambiare idea. Ora fate silenzio, per favore: voglio ascoltare il mio cuore che perde colpi.”
E puntuale si assopiva credendo di morire.


Ma la morte non giungeva mai; e in quell’attesa l’uomo
ripassava il suo desiderio, ulteriormente arricchendolo di
dettagli e particolari.


Il tableaux vivant che arrivò a immaginare era così ingombro di oggetti (palme, ventagli, graticole) e di situazioni (litigi, accoppiamenti, proclami) da oscurare totalmente la scena madre: quella dei selvaggi che, grati ai loro dèi per
il congruo beneficio, si affaccendano sui resti dell’ultimo balilla.


L’uomo morì. Morì che stava ancora cercando di trovarsi in quel bailamme. Non vi riuscì; troppa confusione.


L’anima dell’uomo non scoprì mai le sorti del corpo; se i
famigliari avessero o non avessero esaudito il suo desiderio.


Si accontentò, nel dubbio, di mangiarsi le unghie per
l’eternità.






La luna è difficile da sopportare, questa sera; così grande
che occupa l’intero quadrato della finestra. E mi impedisce
di vedere la baia; di mettere a fuoco i ragazzi che fanno
avanti e indietro con i motorini sul lungomare. Tanta è la
sua luce.
È l’agosto del 1991.
La luna, dicono gli esperti, non è mai stata così vicina
alla terra. Così vicina che un impatto con il nostro pianeta
non è ipotesi fantascientifica.
Gli angeli potrebbero tagliare i fili che sostengono la
luna alta nel cielo; per capriccio del buon Dio, ma senza
malizia.
Reciderli, i fili; e la luna cadrebbe allora su di noi. Alcuni morirebbero. Altri no.
Rovescio la tazza di caffè bollente sul gatto. Lo faccio
per la luna: non la sopporto. E il micio, povero, non c’entra niente. Fugge dall’altra parte della cucina; si accoccola accanto al frigorifero. Il frigorifero che ronza, benché da
mesi non sia collegato. Ronza perché è quello che ha fatto
per anni, suppongo, e non è facile abbandonare in quattro
e quattr’otto le proprie abitudini.
Ma gli angeli – perché dovrebbero tagliare i fili della

luna?

I ragazzi fanno avanti e indietro con il motorino. Tra di
loro, ne sento la voce, colui che più di tutti ho amato nella
mia vita precedente. Lui puer bellissimo, io ansiosa e fragile. Lui che nel mezzo di piste affollatissime mi umiliava con
domande del tipo ti immagini che corpo avrei se fossi donna?
Sai che muscoli?
Lo sto ancora aspettando. Quando ci incontriamo io
sono trasparente come il pomeriggio; come i riflessi sugli
occhiali da sole dei bagnanti. E lui non mi vede.
Adesso sono io che qui, dalla mia finestra, non vedo lui.
Una rivincita a metà. Perché comunque lo sento.
È questa luna che acceca tutti, stasera. Acceca anche
loro, i ragazzi. Le grida arrivano fino a me; i rumori della
carrozzeria, la ferraglia che si accartoccia. Gli stridii delle
frenate.
Mi porto la mano al seno. Un giorno sarà di nuovo suo
– dei suoi genitori, dei suoi fratelli.
Sempre che gli angeli non taglino i fili della luna. Ma
sono fiduciosa. Dio non cova sentimenti di morte. Ci lascerà sani; intatti fino al duemila, Dio.

La luna non cadrà.