Gabriele Galloni
Dal libro “LA LUNA SULLE CASE POPOLARI”
Estate
Alla periferia di Roma, sulla strada che porta verso il mare, sorge il quartiere Trullo.
Il Trullo è uno di quei quartieri a cui spesso si accompagna la denominazione “di frontiera” e in effetti, al contario di altre volte, tale denominazione è azzeccatissima. Il quartiere Trullo, difatti, si può definire l’ultimo quartiere di Roma poichè, appena fuori da esso, prendendo la strada della Magliana Vecchia e superata la frazione di Muratella, si arriva a Ponte Galeria, ultimo avamposto di Roma e da lì il paesaggio già cambia: iniziano a fare la comparsa i primi pini marittimi, le vallate si estendono e le colline si alzano annunciando il mare; si iniziano a vedere le villette di vacanza
con i muri un pò scrostati. Da Ponte Galeria ogni cosa assume un vago tono crepuscolare che ha lo stesso colore della fine dell’estate, e l’odore di salsedine - quanto siamo vicini a Fiumicino! - penetra fin dentro le narici.
Quartiere di frontiera, dunque; ma siamo sicuri che la definizione di “quartiere” si addica in pieno al nostro palcoscenico?
Spesso, sopratutto al passante occasionale e poco attento, più che un quartiere il Trullo appare un centro abitato a sé stante: un piccolo paese, insomma.
Pur essendo ignorante di antropologia e urbanistica, proverò a fissare tre punti per spiegare la situazione:
1) Essendo completamente circondato dalle campagne pontine, il Trullo tende a dare
una idea di paesello o di centro pesudo marittimo piuttosto che di un estremo e sgradevole lembo di periferia. È infatti noto che, quando si parla di periferia, subito saltano agli occhi immagini piuttosto squallide: cieli grigi, palazzi in decomposizione, corpi meccanizzati e intristiti dal metallo arrugginito. Tutto ciò
non succede al Trullo e se qualche volta, parlando di esso, sono state usate parole come decadente o brutto sicuramente è stato nel mezzo di un discorso di qualche borghesotto algido e impotente, amante dei pregiudizi.
2) C’è una via al Trullo, via Ventimiglia, (dove ci sono le case popolari), che è il luogo di ritrovo di quasi tutti i ragazzi della zona ed è l’ambientazione principale di questa storia.
In questa via, che è tanto lunga e conduce fino ai piedi della vecchia collina, si ripe
te spesso un modo di dire piuttosto banale ma che, nella nostra storia come nella realtà, corrisponde al vero: “Qui tutti sanno tutto di tutti.”
Esattamente: non c’è segreto che tenga in mezzo ai lotti delle case popolari; non c’è
confidenza o bugia che duri più di una notte e quasi tutti gli abitanti lo dicono ridendo:
“Qua nun ce stà segreto che tiene... Se volemo, potemo incarcerà tutto er Trullo.”
Ne ridono, ma è un riso amaro che induce spesso a coprirsi le spalle con altre menzogne e nulla è qui più pericoloso di un’anziana donna che guarda dalla finestra...
A parte questo l’atmosfera è amichevole e familiare. Ogni cosa invita all’amicizia virile, all’amore, alle belle donne.
3) Oltre all’ambiente, che può richiamare l’atmosfera di un paesino, anche le persone
hanno una mentalità territoriale non comune, molto diversa da quella degli altri quartieri. Il Trullo è infatti un quartiere a “conduzione familiare” diciamo così. Il lettore mi perdoni per questo termine che può sembrare infelice e generalizzatore ma che, dato l’ambiente, è il più adatto.
Facciamo qualche passo indietro nella storia per ricostruire l’origine del mio termine:
il Trullo venne fatto costruire dal governo nel 1939 per dare un’abitazione agli sfollati del Rione Monti. Da allora quasi tutti gli appartamenti delle case popolari sono passati di padre in figlio, di figlio in nipote, di zio in cugino... rafforzando i legami di parentela, di conoscenza e di fiducia fino all’inverosimile.
Il carissimo lettore mi perdoni le divagazioni, che forse per chi non ha vissuto al Trullo possono risultare noiose e superflue, ma mi erano essenziali per ben delineare il paesaggio e il panorama in cui i personaggi (rigorosamente veri) si muoveranno nella mia storia (rigorosamente vera).
Se dovessi dire il colore che prevale al Trullo, senza dubbio direi il giallo chiaro: il colore delle case popolari, il colore delle grandi strade sterrate che lo circondano. Persino il pensiero qui - ma forse è una forzatura - si tinge di un colore chiaro e si va a fondere con i muri della vecchia chiesa di San Raffaele, vecchia di oltre sessant’anni e giovane come un bimbo appena nato.
Proprio questa parrocchia, insieme ai muretti della via Ventimiglia, è il maggior punto d’incontro per i giovani: all’oratorio si incontrano ragazzi di tutte le età. Ragazzi timidi, ragazzi spigliati; ragazze giovani, ragazze vecchie, vecchie ragazze che frequentano l’oratorio fin dalla culla.
Il suono del pallone che rimbalza sul terreno è la colonna sonora più gettonata all’oratorio e ad ogni rimbalzo si accompagna un riso di gioia, a ogni riso di gioia si accompagna un bacio...
Tutti qui, vivendo, incensano e onorano la grande festa della vita e della gioventù: maschi, femmine, uomini, donne, preti, ragazzi.
E sopratutto d’estate è difficile trovare qualcuno, fra un tiro di calcetto e uno scherzo virile, che non sia fidanzato e felice.
Avendo delineato ora a grandi linee il paesaggio del quartiere, stilerò un breve elenco
dei luoghi che il lettore vedrà spesso comparire nel romanzo.
- Via Ventimiglia: è la via principale del Trullo. Qui sorgono i lotti delle case popolari
ed è il punto di incontro di molte comitive.
- Chiesa di San Raffaele: è la chiesa del quartiere. Molti gruppi di ragazzi si ritrovano
qui per giocare a pallone, per amare, per innamorarsi e per sognare sotto la volta del cielo azzurro di periferia.
- Bar Alta Marea: il bar della zona, un carosello di personaggi, di amori, di piccole illusioni quotidiane.
- Montecucco: la zona sopra il Trullo; non è parte integrante del quartiere, sebbene si pensi comunemente il contrario. Qui ci sono altre case popolari.
- Piazzetta di Montecucco: La piazza centrale di Montecucco; d’estate c’è sempre un
palcoscenico dove per tutta la notte la musica suona ininterrotta.
- Vecchia collina: è la collina accanto a Montecucco; non ci sono abitazioni se non
qualche rovina e una casa abbandonata. Qui vengono le coppiette a scoprire l’amore per la prima volta, a guardare il cielo e a passeggiare fra le ginestre e l’erba medica. Si può quasi vedere il mare di Fiumicino, nelle giornate limpide.
Il vento fra i rami sottili
Il vento fra i rami sottili
Il vento fra i rami sottili
D’autunno non lascia speranze.
Un fruscio continuo e la notte
Discende pian piano, pian piano...
Si spegne la luce. I cortili
Di via Ventimiglia son vuoti.
Un qualche geranio, le rotte
Canzoni a singhiozzi, lontano.
Storia del fauno Giuseppe
“Ma Franco che cosa fece per tutta la vita?”
“Franco? Te l’ho spiegato: attese.”
“Attese, e... ?”
“Attese e visse. Forse sognò perfino. Che cosa? Non si può sapere. Raramente si conosce la vita degli altri, figuriamoci i sogni.”
“Trovò qualche affetto?”
“Il suo unico vero affetto, esclusi i banali legami di convenienza, fu la parete di casa.”
Silenzio. Il mattino si avvicinava a poco a poco, suonando il flauto delle nubi e della
rugiada e fischiando nell’imbuto delle stelle per svegliarle e prepararle al lungo viaggio del sonno.
Tutte le stelle che dovevano cadere sono già cadute, pensò Sandro con una punta di
malinconia guardando il cielo semivuoto.
Erano quasi le quattro del mattino.
Sandro e Claudio tacevano, incapaci di trovare un ordine alle parole che a entrambi riempivano il petto. Una storia, quando finisce, lascia sempre un baratro di nostalgia difficile da riempire.
I capelli biondicci di Claudio brillavano al chiarore lunare, lucidi di sudore e di olio.
Le gracili spalle rosa, scoperte, sembravano il ventre gonfio di un annegato. Nessun pelo aveva ancora fatto la tana sotto quelle ascelle colore del marmo, soltanto un’ombra lieve di pubertà macchiava la sua carne: la carne bianca di un Adamo che all’alba della vita, da solo, attende la sua Eva.
Entrambi i ragazzi erano a petto nudo e lì, nel buio del cortile, sembravano quasi due
statue di cera abbandonate per caso. Il rosa dei loro capezzoli, il rosso secco delle labbra, il sorriso sbiadito come una vecchia incisione di cui si è persa la memoria.
Il primo a ritrovare la parola fu Sandro, come sempre. Una parola banale, una parola
che nessuno ricorda più. Claudio ascoltò attentamente e poi rispose anche lui: sempre la stessa parola, ripetuta infinite volte.
“C’era una volta, qui al Trullo... beh, c’erano tante cose una volta. Tuttavia non riesco
a trovare altro modo di iniziare che questo.
C’era una volta il tempo che non ritorna. E c’erano le case popolari ancora in costruzione, i campi coltivati, le famiglie del sud e la baraccapoli vicino al fiume. Oh, c’erano tante, tantissime cose, una volta.
E c’era anche Giuseppe Salimene, un anziano vedovo che viveva da solo sopra la collina.
Lì dove adesso c’è il vecchio casolare: quella era casa sua, una volta. Giuseppe era conosciuto anche con il soprannome di fauno per la sua abitudine di girovagare nudo nel giardino, che all’epoca era la collina intera. Viveva un’esistenza solitaria e scendeva al quartiere soltanto per la messa della domenica e per le festività religiose.
Le giornate di Giuseppe scorrevano sempre uguali, monotone, scandite dai bisogni naturali e dal rumore che il vento produce quando sfiora le spighe di grano. Giuseppe mangiava ciò che produceva il suo piccolo orto e, quando andava proprio male, riusciva ad accontentarsi anche di erba medica che trovava in mezzo ai prati. Questo avveniva sopratutto in inverno, il mese degli acquazzoni e delle nevicate, il mese in cui la terra è più dura e il cielo guarda indifferente il mondo degli uomini. Il mese in cui i santi e le stelle vanno in ritiro spirituale sopra la collina del Purgatorio, in una notte che dura quattro mesi, sotto l’occhio vigile della signora Luna.
Giuseppe s’era sposato giovanissimo, all’età di diciassette anni. Un matrimonio riparatore causato da un cielo stellato e da una folta, foltissima boscaglia. Sua moglie si chiamava Gianna e aveva tre anni meno di lui. Una ragazzetta ingenua e dolce, piena di lentiggini sul viso simili a gocce di rugiada.
Passò qualche anno felice per la coppietta.
Giuseppe aveva trovato lavoro come scaricatore al porto di Fiumicino e Gianna si occupava delle faccende domestiche e del figlio.
Erano una famiglia unita e benvoluta da tutti, sebbene non mancassero su di loro occasionali chiacchiere e maldicenze dettate dalla malizia e dalla noia. Si diceva, ad esempio, che Giuseppe usasse passare il tempo libero con dei giovani operai, insegnando loro la giusta maniera per corteggiare le signore e le ragazze. Circolavano anche altre voci, ma adesso, perdonami, proprio non me le ricordo.
Un giorno, si era ai primi di gennaio, la moglie di Giuseppe si ammalò gravemente.
Dapprima furono soltanto una leggera tosse e una persistente debolezza, poi vennero il sangue, il mestruo interrotto, la tosse grassa che risuona nelle case vuote come una pietra che affonda nel fango. Quindici giorni dopo i primi sintomi, in un pomeriggio soleggiato, l’anima della donna lasciò per sempre la terra per raggiungere il cielo e gli orizzonti lontani.
Le sue ultime parole furono delle frasi d’amore spezzate dall’affanno; frasi d’amore per il figlio, divenuto un bel tredicenne, e per il marito distrutto dal dolore. Al funerale la bara, adornata con povera dignità, venne trasportata da un gruppo di giovani e volenterosi operai con berretto grigio e tute da lavoro.
Non passò molto tempo che anche la vita di Giuseppe cambiò. Smise di frequentare i
suoi giovani amici e si licenziò dal lavoro. Passava sue giornate in casa, sdraiato sullo stesso letto duro che aveva visto, poco tempo prima, spirare la moglie. Un letto che adesso gli pareva freddo e troppo grande. Le coperte erano le stesse dal giorno della morte della moglie: un vecchio piumino rosa, macchiato qui e lì di chiazze rosse come piccole rose appena fiorite e di macchie giallastre, asfodeli appassiti senza respiro.
Con la consueta velocità venne la primavera: gli dei scesero dai monti innevati per bagnarsi nei fiumi e nelle praterie; i santi tornarono in Paradiso mano nella mano con le stelle e tutto il cielo riprese a camminare il suo eterno viaggio intorno al mondo.
Un giorno anche il figlio di Giuseppe se ne andò di casa. Affascinato da una compagnia circense venuta al Trullo per alcune serate, chiese di essere assunto come saltimbanco e custode degli animali: venne preso immediatamente e dopo alcuni giorni partì verso i Castelli Romani dove la compagnia aveva altre serate. Non si ebbero più sue notizie.
Giuseppe rimase così irrimediabilmente, definitivamente solo. Venduto il suo appartamento alle case popolari, si trasferì in un vecchio podere abbandonato sopra la collina, con i pochi soldi rimasti e tanta, tantissima libertà. La casa dove andò ad abitare ora non c’è più: era già semidistrutta all’epoca e senza proprietario. Giuseppe la conosceva bene, poichè era proprio lì che portava i suoi giovani amici quando doveva istruirli all’amore e al corteggiamento.
I primi giorni non furono facili: il tempo piovoso rendeva il terreno una melma e trasudava sia dal tetto semidistrutto che dalle pareti. Fu necessario un enorme telo cerato, ben piazzato sul tetto e inchiodato alle pareti, per rendere il rifugio più vivibile e caldo. Ma si sa come sono fatti i temporali primaverili: qualche giorno e poi più nulla. Anche la pioggia finì e vennero le notti stellate.
Giuseppe si sentiva sempre più soddisfatto del suo rifugio lontano dal mondo. La moglie non era che l’eco di uno starnuto lontano. E il figlio? Non aveva figli, lui. Non ne aveva mai avuti. La vita è un sogno e come tale bisogna viverlo: così giustificava le lunghe giornate passate senza fare nulla.
I vestiti oramai non facevano più per lui: era bello stare nudi come i primi figli della terra, senza pensieri che quelli dettati dai bisogni corporali e dalla noia. Si era persino fatto un piccolo orto, che raramente donava qualcosa di diverso dai frutti del fango, frutti che tuttavia gli erano molto graditi poichè avevano lo stesso sapore dei primi baci e dei primi turbamenti e misteri.
A volte, durante l’estate caldissima, per rinfrescarsi faceva il bagno al Tevere che scorreva proprio sotto la collina. Sceglieva posti appartati e solitari per evitare ogni contatto umano.
In quartiere iniziarono a girare le prime voci sul suo isolamento: follia, disperazione,
malattia, perversione. Venne organizzato perfino un comitato per cacciarlo via da lì sopra, senza successo. Quel posto era libero da giurisdizione e Giuseppe aveva tutto il diritto di viverci. La collina era il suo giardino e la terra la sua casa. Quando si sentiva in forma riusciva a nuotare, seguendo il corso del Tevere, fino alla foce a Fiumicino. Partiva il pomeriggio e arrivava alla sera. Completamente nudo faceva poi il giro della baia e si appisolava in
qualche anfratto nascosto aspettando l’alba.
Così trascorreva la sua vita beata a imitazione degli antichi, ignaro di tutto ciò che accadeva nel quartiere: Peppino si era comprato una macchina; Sandro era morto di polmonite; i suoi giovani amici erano diventati uomini ed erano emigrati tutti verso le terre lontane, in mezzo alle nebbie, in cerca di sogni e di lavoro. Su Montecucco avevano iniziato a costruire altri agglomerati di case popolari e la chiesa di San Raffaele era stata allargata per fare spazio ai nuovi fedeli, sempre più numerosi.
Tutto questo non giungeva a Giuseppe, convinto che la vita, quella vera, non dovesse
mutare che rare volte. Ma ogni tanto, sopratutto alla sera, quando sedeva sul ciglio della collina, l’occhio gli cadeva in basso, verso le luci del quartiere. Le case popolari di via
Ventimiglia coperte da un velo di zucchero, il campetto da calcio polveroso e le piccole macchie che correvano inseguendo un pallone, il campanile della chiesa che s’innalzava verso il cielo crepuscolare striato di sangue e
di ametista.
In quei momenti una sensazione di nostalgia gli pungeva il petto. Essere in mezzo a
loro, ritrovare tutto ciò che aveva abbandonato e vivere una vita normale... e dimenticare, forse. Ecco ciò che quei momenti gli suggerivano. Ma il cuore, si sa, raramente ascolta le voci della realtà, preferendo ad esse quelle più impetuose dell’istinto e del sogno. E così Giuseppe si addormentava, dimenticando tutto ciò che fino a poco prima aveva desiderato.
Una mattina, diversi anni dopo, Giuseppe sognò tutta la sua vita precedente: dall’infanzia al matrimonio e poi alla nascita del figlio.
Rivisse tutto passo dopo passo; tutte le scene gli scorsero davanti agli occhi come sfilate funebri:
Vieni; qui non ci vede nessuno.
Sei sicuro?
Ma sì, chi vuoi che ci veda!
Oh, non così... mi fai male!
Guarda le stelle e non pensarci...
Una, due, tre... quattro! Ne ho contate quattro!
Ahi, mi fai male...
Vuoi tu, Giuseppe Salimeni, sposare Gianna Sandrelli?
Sì, lo voglio.
Vuoi tu, Gianna Sandrelli, sposare Giuseppe Salimeni?
Sì, lo voglio.
Potete baciarvi, allora.
(Applausi scroscianti nella chiesa; il suono dell’organo; la marcia nuziale)
Amore mio, sento che mi si stanno rompendo le
acque... mi fa male, tanto male...
Sdraiati sul letto; vado a chiamare mia madre.
Oh, fai in fretta... mi fa male... mi si rompe tutto...
Aspetta, torno subito .
Dov’è Gianna ?
In camera da letto, sta per partorire.
Aiuto, muoio! Aiuto!
Eccolo: è quasi fuori; è un maschietto, lo vedo.
Un maschietto?
Sì
Oh, che dolore... mi fa male tutto...
Come lo chiamerete?
Ancora non lo sappiamo...
Non mi sento molto bene, Giuseppe. Ho la gola
piena di catarro...
Avrai preso freddo. Mettiti a letto.
Mi fa male il petto. Forse ho la febbre.
Fammi sentire. Beh, in effetti sei calda. Riposati.
(colpo di tosse)
Ti porto i tovaglioli.
Sento... sento il sapore del sangue in bocca. (Colpo
di tosse)
Chiamo il medico... qualcuno... chiamo qualcuno...
Chiama il sacerdote.
(Rintocchi di campana in lontananza; il cielo si
oscura a poco a poco)
Ciao pà... io vado. M’hanno preso al circo come
saltimbanco e custode di animali.
Ma come? Mi lasci da solo?
Eh, pure io devo pensà al futuro mio. Tu che dici?
Ma con il circo...
Sì, con loro. Vabbè: ora vado che sennò faccio tardi. Ci vediamo! Un bacio.
Se tua madre ti avesse visto!
Eh, se non m’ha visto, mi vedrà! Ciao. (Silenzio).
Per giorni interi Giuseppe non riuscì a pensare che al suo sogno e alla sua vita. Oramai erano già diversi anni che si trovava sulla collina, solo e tutto sommato felice: mai sarebbe riuscito a ritornare alla società. Questo pensiero lo riempì di orgoglio; disprezzava tutti, laggiù, dal primo all’ultimo; che si tenessero le loro case, i loro amori e le loro corna. Lui era felice. Soltanto questo importava.
Al quartiere quasi tutti si erano scordati di
lui, di Giuseppe: l’eremita pazzo, il sempre nudo. Nessuno se lo ricordava se non come si ricordano i sogni: vagamente, a tratti, in maniera sempre confusa. I bambini pensavano a lui come a uno spauracchio inventato dai genitori per impedire loro di salire sulla collina. I più anziani erano gli unici che ancora, ogni tanto, guardando l’estremità del colle pensavano alle luci della gioventù e al loro amico perduto. I nuovi arrivati non lo conoscevano minimamente.
Era inverno. Gli dei erano tornati sulle montagne del Parnaso in compagnia di fanciulle e fanciulli per evitare il freddo banale e volgare della terra. I santi avevano ripreso a pregare sulla cima del Purgatorio, tenendo compagnia alle stelle e suonando i flauti delle nubi.
Da alcuni giorni Giuseppe non mangiava; il piccolo orticello era andato definitivamente in malora: il freddo aveva ucciso le già scarsissime coltivazioni. La pioggia battente gli impediva di cogliere della buona erba e nessun animale si faceva trovare nelle vicinanze. Il panorama che vedeva dalla collina era un’immensa distesa di grigio che si estendeva giù, fino a Ponte Galeria e poi a Fiumicino e poi al mare. Tutto era grigio attraverso gli specchi della pioggia e del pianto. Il suo fiato aveva iniziato a puzzare di stomaco: è normale quando non si mangia per lungo tempo. Un
odore acre, caldo e umido gli teneva costantemente compagnia nella bocca e accompagnava ogni suo respiro.
E si conosce la fragilità del corpo umano.
Una fragilità simile a quella del filo di cristallo, quando viene teso a lungo sopra una fornace. Giuseppe morì una decina di giorni dopo, per la fame e per la sete. Morì rovesciando gli occhi all’indietro, come se una volontà suprema lo avesse obbligato, nell’attimo estremo, a distogliere lo sguardo dall’acqua riflessa nelle pozzanghere della luna. Morì disteso supino sull’erba fradicia di pioggia, implorando l’antico dio degli esseri primitivi.
Il suo corpo venne sepolto, si dice, da uno stormo di rondini mandate da San Giuseppe in persona, il quale, impietosito per il suo omonimo, decise di onorarlo degnamente.
Con delle manciate di terra e sabbia provenienti dalle spiagge dell’Empireo, gli uccelli ricoprirono tutto il corpo del pover’uomo.
Non ci volle moltissimo: per le creature celesti è tutto facile, sai. Ben presto il cadavere non si vide più, sepolto sotto una fine sabbia dorata come l’alba che vide nascere la prima vita. E forse anche l’ultima.”
Finita l’ennesima storia, rimasero le solite
domande. Claudio guardò l’amico:
“Ma com’è possibile che San Giuseppe, da sopra la cima del Purgatorio dove i santi vanno in inverno, abbia potuto vedere Giuseppe?
E le rondini dove le ha trovate, se in inverno migrano tutte verso gli orizzonti lontani?
Questi sono particolari che non capisco.”
“Ah, ma è semplice” rispose Sandro. “Soltanto perchè i santi pregano, d’inverno, sopra la cima del Purgatorio, non vuol dire assolutamente che non riescano a vedere la terra e gli esseri umani. L’essere umano è sempre sotto l’occhio delle entità celesti: è nella sua condizione. Può la luna perdere di vista la terra? Nemmeno a pensarci. Può un santo perdere di vista un essere umano che porta il suo stesso nome? Follie.
Per quanto riguarda le rondini, la spiegazione è semplice. Quelle rondini erano state ammaestrate personalmente da Sant’Antonio e appartenevano al Paradiso. Le rondini del Paradiso si occupano di diverse faccende, come si dice in giro: sono le messaggere dell’alba e del tramonto, vegliano le stelle e fanno sì che il mondo non si addormenti più a lungo di una notte.
“Ah, ora capisco.”
“I tuoi dubbi sono normali. Ma non badare troppo ai dettagli, te lo ripeto. I sogni, per
loro natura, non devono abbondare di dettagli: altrimenti non sarebbero certo sogni! Sarebbero... cosa sarebbero? Non lo so.”
“Il figlio di Giuseppe tornò mai al quartiere? Venne mai a conoscenza della morte del
padre?”
“No. Le sue notizie si sono perse quasi subito dopo la partenza.”
“Come si chiamava la compagnia circense con cui fuggì?”
“Mah... boh! Questo proprio non lo so!”
“Certo passa veloce il tempo, eh? Sono già le quattro del mattino. Guarda lì, in lontananza: il cielo sembra quasi staccarsi dall’abbraccio con il mare; una luce giallastra penetra nelle ferite del buio.”
“No: per l’alba è ancora presto. Si prepara
l’aurora.”
Cade lenta la pioggia sulla borgata
Cade lenta la pioggia sulla borgata vecchia:
Dalla collina al campo, dai lotti alla chiesetta.
Tace la voce; svuota la pioggia la stradina.
Cade lenta la piogga sulla borgata antica,
Ed una voce amica qui mi sussurra già:
Ma di cosa? Non so... del passato l’amore,
Del giorno che già muore... il pianto, la finestra,
Degli occhi che sognavo.
Cade lenta la pioggia
Sulla borgata triste.
“L’hai viste, l’hai viste?”
Vecchia amica, il ricordo m’appare: dolce e
bello!
“Che cosa? “Laggiù, quello,
Quello stormo che s’alza.”
E qui la pioggia incalza, ed il pensiero è triste.
Vergine della Magliana
Immobile riposa
fra i ceri e gli asfodeli
appassiti, la sposa
delle stelle e dei cieli.
Pudico il manto azzurro
le copre la brunita
carne, un bacio, un sussurro
argentino, la vita.
La ballata di Narciso
Non so se fu realtà o se fu visione,
quello che vidi in una sera estiva,
passeggiando sulle rive del Mignone:
l’acqua brillava come fosse viva,
in cielo sparse nubi di cotone
chiamavano la notte a voce piena.
Si specchiava un ragazzo sulla riva
del fiume, tutto nudo, senza pena.
I suoi capelli avevano il colore
del grano settembrino; il suo sorriso
aveva la dolcezza dell’amore;
un’ombra appena stava sul suo viso
come di cera, bianco, puro albore,
intento nel guardare il suo riflesso.
A lungo l’osservai, dolce Narciso
nell’acqua, gloria e lode del suo sesso.
Rimasi a lungo immobile; il fruscio
del fiume intorpidiva i miei pensieri,
come l’eterno filtro dell’oblio
intorpidisce i sensi e i desideri
dell’animo. Nell’acqua un tremolio
d’azzurro, un’onda lieve e poi la schiuma
biancastra. Ciò che è stato, è stato ieri
e non sarà mai più.
Non so se fu realtà o se fu visione,
quello che vidi in una sera estiva,
passeggiando sulle rive del Mignone...
Scenetta
Erano quasi le sette di sera e da circa mezz’ora i due ragazzi stavano aspettando il
treno alla stazione seduti su una panchina arrugginita. L’ultima luce del giorno affievoliva a poco a poco, colorando il cielo di un rosso
sanguinolento e dolcissimo.
Una sera di maggio.
Il ragazzo fissava i capelli biondi della sua ragazza seduta accanto a lui. Un’associazione bizzarra lo folgorò: quei capelli erano come spighe di grano in attesa di essere mietute.
Non glielo disse. Non tutti, pensava, possono capire queste sottigliezze metaforiche: avrebbe potuto offenderla. Un’ombra di silenzio calò intorno a loro.
La ragazza aveva gli occhi socchiusi per la stanchezza; quella stanchezza che prende le anime pigre appena si rilassano un poco.
“Hai fame?” le chiese il ragazzo passandole una mano sul fianco.
“Un po’ ” fece la ragazza. “E tu?”
“No. Non molta.”
Si erano fatti più vicini. Le loro mani si cercarono senza trovarsi. Con un moto di insofferenza la ragazza si staccò da lui.
“Che succede?” domandò il ragazzo sorpreso da quel gesto.
“Nulla” rispose la ragazza. “Ho caldo.” E così dicendo volse lo sguardo dall’altra parte.
Una voce dall’altoparlante annunciò l’arrivo del treno. Silenzio. Erano le sette e mezzo: il treno aveva ritardato di oltre un’ora, un fatto davvero insolito.
Si alzarono entrambi e si avvicinarono al margine della banchina, scorgendo in lontananza i fari che squarciavano l’orizzonte. Il sole si era ormai ridotto a una vaga linea rossa confusa fra i giuncheti e le colline.
Con uno strepitio sordo sulle rotaie, il treno frenò. Era un vecchio modello a un solo
piano con la tappezzeria consumata.
La ragazza entrò seguita dal ragazzo. Un barbone dormiva in fondo al vagone, le mani sulla patta sbottonata. I vetri sporchi disegnavano arabeschi di polvere e vecchiume. Un neon lampeggiava a tratti come un moribondo esala l’ultimo respiro.
I due ragazzi non erano proprio fidanzati ufficialmente. La loro era una frequentazione sporadica: un affetto che sbiadiva giorno dopo giorno. A questo pensava il ragazzo, cercando di raccogliere i suoi pensieri in frasi
di senso compiuto dalla sintassi impeccabile.
La ragazza ogni tanto sbuffava senza darlo troppo a vedere.
La stazione di Ponte Galeria si avvicinava sempre di più. Il ragazzo si decise a parlare:
“Oggi ti ho vista un po’ distante. Forse è solo una mia sensazione.”
E fuori dai finestrini i campi deserti, le collinette, le ombre della sera, una scia indefinita di verde, qualche abitazione.
Per un po’ non si udì altro rumore che il gemito delle rotaie.
“In effetti sono più distante, lo sento” disse lei. “Non so; non so che dirti.”
Il ragazzo raggelò.
“Ma è successo qualcosa?” chiese con aria fintamente disinvolta.
“No, nulla: è mai successo qualcosa?”
“No, effettivamente... ”
“Effettivamente... ”
Il treno arrivò a Ponte Galeria. Fuori era già buio. Nel loro vagone entrarono altri due
passeggeri: un uomo anziano dalla fronte scolorita e una donna sui quarant’anni dai lineamenti finissimi, forse dell’est.
Qualche stella danzava a tratti nel cielo. Dalla sua zona di finestrino il ragazzo poteva
osservarle bene. Una volta, quando fingeva l’amore, le stelle gli ricordavano gli occhi della sua ragazza. La ragazza che sedeva di fronte a lui, addormentata.
Arrivato alla sua fermata il ragazzo si preparò per scendere. Diede una rapida occhiata al cielo e scese di corsa.
La stazione della Magliana dormiva nel
buio della sera.
Epitaffio per madama Luna
Amante degli insonni,
degli ultimi romantici;
ispiratrice dei più dolci cantici,
riposa in pace
nell’ultimo dei sonni.
L’anima tace.
Un bianco pomeriggio senza vento
Un bianco pomeriggio senza vento,
Noi ce ne andiamo soli per la strada,
Lì dove l’erba al passo si dirada
In chiazze sparse. Il cielo un poco spento
Si unisce al mare, quasi, da lontano.
In mezzo ai giunchi il fruscio calmo, lento
Del fiumiciattolo, quasi d’argento,
Visto nel sole dell’Agro romano.
Stanchezza dell’addio, del ritornare
Sempre sui nostri piedi un poco stanchi
Verso altri lidi forse più lontani.
Cerco nel sogno le tue stanche mani,
E la dolcezza pallida dei fianchi:
Il sangue malinconico del mare...
La leggenda di Pan e Siringa
Erano ormai diversi giorni che Pan, suonando lo zufolo e urlando alle stelle, inseguiva la sua donna. Colei alla quale aveva donato il cuore. E l’apparato digerente.
La sua amata, una giovane ninfetta di nome Siringa, non ricambiava però il suo amore.
“Puzza” diceva “ed è brutto assai. Non m’importa: sia pure figlio di Ermes o delle stelle.
Da me non avrà mai nulla. Niente di niente.”
Inutili furono i tentativi di Pan per conquistarla: feste al chiaro di luna nella foresta, serenate, sacrifici di agnelli a profusione.
Una sera Pan invitò Siringa a uscire servendosi di un biglietto anonimo e firmandosi “colui.” Siringa non accolse però l’invito e Pan rimase lunghe ore ad aspettarla dietro un cespuglio, masticando pelle di lepre e ferendosi gli avambracci con appuntite pietre di selce.
Dicevamo: erano ormai diversi giorni che Pan, suonando lo zufolo e urlando alle stelle, inseguiva la sua donna. Colei alla quale ecc.ecc.
Siringa era molto veloce nella corsa, ma anche Pan non scherzava, addestrato da suo
padre Ermes. Gli dei e le stelle seguivano con apprensione la fuga di Siringa. C’era chi tifava per lei, considerando Pan uno sciocco pastore puzzolente, e chi sosteneva quest’ultimo, considerando Siringa leggera di cuore e frivola quanto una brezza primaverile. Ognuno aiutava come poteva il suo favorito: le amiche di Siringa distraevano Pan danzandogli intorno completamente nude e sputandogli negli occhi, per demoralizzarlo e appannargli la vista.
Gli animali aiutavano invece Pan sbarrando la strada a Siringa o ferendola leggermente.
Arrivarono alle vallate di Ponte Galeria. La sera scendeva sul mondo, una sera tremula come uno specchio d’acqua colpito da una pioggia di piccoli sassi. La luna vegliava la corsa dei due. Una luna di altri tempi, costantemente rotonda e priva di crateri e di ammaccature.
Con uno scarto improvviso fra i canneti, Siringa riuscì a seminare momentaneamente
Pan, il quale continuò a correre dritto davanti a sé. La giovane ninfa trovò una grotta e vi si nascose.
All’epoca, Ponte Galeria non era molto diversa da adesso: non c’erano le case, è vero,
la vegetazione era molto più estesa e la notte
molto più silenziosa, tuttavia la conformazione territoriale era pressoché identica. E non c’era il vecchio Dancin’ Blue.
Pan si fermò di scatto. Non sentiva più il respiro affannoso di Siringa e il battito dei
piedi nella corsa. Dov’era? Dov’era l’ombra nuda e sudata di Siringa? Pan la cercò con gli occhi. Ogni ombra era la sua. Silenzio. Non sentiva nemmeno più il suo odore, l’odore delle sue cosce fradice e dei suoi capelli. Si sedette in terra, stremato, ad ascoltare il rumore della notte, l’unico rumore che davvero lo facesse sentire bene. Le stelle tremolavano azzurre sullo sfondo scurissimo del cielo, tutte intorno a Madre Luna: la grande regina e la signora, vestita d’argento e zaffiri. Portatosi lo zufolo alla bocca, Pan intonò la sua più dolce melodia.
Siringa, dal fondo della grotta, ascoltava non senza apprensione la musica di Pan.
Qualcosa sarebbe successo. E la sua anima tremò di un tremore indefinito.
Spesso le stelle, il cielo e i venti – sopratutto quelli del nord - parlano lo stesso linguaggio degli uomini: così funziona dalla notte dei tempi. Un linguaggio semplice e pacato come un suono di flauto, o di zufolo.
Alzatosi in piedi, Pan notò un’apertura fra
le rocce di fronte a lui. Si avvicinò, guardandosi dall’entrare: il buio lo spaventava.
“Sei lì?” chiese Pan smettendo un attimo di
suonare. “Sei lì, amore mio?”
“No” rispose Siringa dal fondo della caverna, nel buio.
Pan rimase in attesa con il cuore in gola. Il buio della grotta lo spaventava.
Rimase lì tutta la notte e tutto il giorno seguente. Siringa non usciva.
Senza cibo, senz’acqua e senza luce, Siringa si ridusse ben presto allo stremo. Il suo corpo fragile di ninfa mutò radicalmente: i seni prosperosi le si svuotarono, divenendo due palloni flosci. I fianchi, una volta opulenti, divennero come rami secchi in attesa della neve. E le gambe, una volta simili a due gigli fradici di
brina, rinsecchirono come quelle di un uomo anziano. Il viso divenne un grumo giallastro dal quale spuntavano solo la bocca, il naso e due fessure per gli occhi.
Così fragili sono le ninfe.
È cosa nota, infatti, che le figlie dell’aria e dei fiumi senz’acqua e senza cibo, e senza
luce, in breve tempo appassiscono. E in maniera più veloce dei normali umani. Se la figura dell’uomo, senza cibo, si assottiglia, la figura della ninfa svanisce, come il vento, come la notte e come le stelle quando l’alba si sveglia dal sonno.
Da ore Siringa si lamentava: le faceva male il seno, diceva, e anche il pube. Chiamava aiuto.
Sentendo le urla, Pan si affacciò all’entrata della caverna. Era lei? Sicuramente sì. Subito allora si gettò dentro la grotta. Brancolò nel buio, in cerca di qualche appiglio; inciampò più e più volte. Finalmente trovò la ninfa e, rozzamente, come un contadino che si metta in spalla un sacco di calce, la trasportò fuori.
Ma quale non fu la sua sorpresa! Ciò che il buio aveva celato così bene, la luce mostrava impietosamente. Colei che aveva in braccio non era la stessa per la quale si era dannato il cuore e ferito gli avambracci, era un grumo giallastro uscito dai bronchi del cielo. Con un latrato di orrore gettò la ninfa nel fiume,
proprio nel punto in cui l’acqua era più bassa e il fondo colmo di schegge di vetro e sassi appuntiti... Poi, senza voltarsi indietro, corse
attraverso le campagne, diretto al mare di Focene.
Gli dei seguivano con apprensione le mosse di Pan: c’era chi lo riteneva uno sciocco
sconsiderato e chi invece lo applaudiva. Dioniso, per festeggiarlo, si ubriacò alla sua salute e ingravidò un servo di otto anni.
Pan arrivò al mare verso il mezzogiorno, l’ora in cui il sole brucia gli arbusti mediterranei e le pietre vulcaniche, l’ora in cui l’orizzonte appare sfocato come un vecchio ricordo.
Allora Pan unì le sue lacrime a quelle delle onde. Avevano lo stesso sapore.
“Tutto mi è negato! Tutto! Dall’amore alla bellezza al sesso! Tutto! Tutto!”
Ermes, sentendo il lamento del figlio, quasi scoppiò in lacrime per la tristezza. Discese dall’alto dei cieli e, a cavallo di una nube di zefiri e acqua, apparve al disperato Pan.
“Cosa vuoi anche tu?” disse il giovane in lacrime. “Non vedi la mia tristezza? Non la
vedi?”
Ermes non rispose, si abbassò la veste di lino che gli copriva le cosce e mostrò a Pan il modo per sfogare la sua infelicità.
Pan non capiva dove volesse andare a parare suo padre; soltanto dopo alcuni minuti,
quando un getto bianco lo colpì in faccia, realizzò il gesto paterno e il suo significato.
“Vedi” fece Ermes “così nasce la felicità
dell’uomo; la felicità è nella completa autonomia. Non disperarti: la carne altrui è come la propria e nulla vale come la propria carne.”
E ritornò in cielo così com’era apparso, a cavallo di una nuvola di zefiri e d’acqua, la- sciando Pan perplesso, intento ad imitare il padre fondendosi con l’acqua.
Non hanno sempre ragione coloro che discendono dalle stelle e dai cieli?
Fiumicino (fotografie della memoria)
È tutto uno stormire di gabbiani
Questo tuo giorno estivo, Fiumicino.
Arde nel pomeriggio la piazzetta.
Odore di salsedine, di festa:
Vita che si consuma senza fretta
Nell’ombra immobile d’un acquitrino,
Tremulo specchio di cieli lontani.